Dal distanziamento paranoico al pigia-pigia come se nulla fosse il passo è breve. Fulmineo, si direbbe. Cassato l’obbligo del fatidico metro tra un ospite e l’altro, le sfilate milanesi di questi giorni sono un inno allo struscio. Da Marni si sta in piedi vicini vicini nel buio pesto, umido e redolente di pungenti profumi vegetali di un immenso tabacchificio alle propaggini estreme della città. L’idea è di trasmettere un senso di vicinanza, di togetherness, in una dimensione di post futuro: il direttore creativo, Francesco Risso, ama imbastire show immaginifici nei quali gli abiti sono parte di un più ampio messaggio. Adesso, parla di tempo, di oggetti custoditi, rammendati e passati da una generazione alla successiva in una circolarità materiale fatta di emozioni e di molti rattoppi su maglie, giacche, vestiti sbrindellati che il tocco della mano rende paradossalmente preziosi.
La collezione reitera l’estetica caotica e processuale di Risso, il suo gusto emozionante per un pauperismo onirico. Lo spettacolo è troppo lento e disordinato, con i personaggi che si muovono al rallentatore illuminati da figuri con le torce, poco aggiungendo, anzi molto togliendo alla magia materica degli abiti. Però, ritrovare all’uscita dal buio tutti i protagonisti dello show nella luce accecante del pomeriggio, mentre banchettano seduti a lunghi tavoli poggiati sulla sabbia blu cobalto, è una visione di un lirismo sublime che sarà difficile dimenticare.
Da Trussard i gli ospiti sono stipati dentro un cantiere in piazza Scala, tra i muri sfondati e i setti cadenti di quello che fu il vecchio quartier generale della maison del levriero, che presto avrà un nuovo aspetto. La metafora del cambiamento in corso è lapalissiana: nuovo management, nuova proprietà, il fondo Quattro R, mentre il 30% è rimasto alla famiglia, nuovi direttori creativi, Benjamin Huseby e Serhat Isik, in arte GmbH. Il clash tra la Milano di Trussardi e la Berlino dei due è potente, e si traduce in una collezione prevalentemente nera dalle forme scultoree, clericali, ma anche sexy e medievali, servite con un gusto ruvido e underground. Se le proposta si apprezza, perchè tagliente e decisa, meno si capisce lo scopo dell’intera operazione dentro un marchio così. Ma è un debutto, quindi bisogna attendere.
È tutto sereno e rarefatto da Jil Sander: spazio immerso nel drappeggio vellutato di una tenda e punteggiato da calchi di statue classiche, e le modelle che incedono sicure ma delicate. Pur muovendosi nell’alveo del purismo che qui è marchio di fabbrica, la collezione, con i suoi tagli sinuosi e i sentori vaghissimi di anni Venti, segna uno scarto per i direttori creativi Lucie e Luke Meier, e accoglie una benvenuta sensualità.
Sensualità che da Ermanno Scervino è da sempre tratto saliente, parte di una visione di stile che celebra la bellezza femminile, sempre e comunque, attraverso la più squisita manualità. Le sciantose da cabaret berlinese di Lorenzo Serafini per Philosophy decostruiscono stereotipi sbrilluccicanti a colpi di rasoiate e fluidità di genere, mentre da Ports 1961 è tutto un campionamento e remix di echi vittoriani e militarismi sartoriali arrangiati in una idea di femminilità, insieme, frou frou e affilata, da fiore d’acciaio.