Pubblicato il
16 mar 2022
Franco Gabbrielli si definisce soddisfatto di una centoventunesima edizione di Mipel che si è chiusa con buoni risultati di presenze. “Certo, in pelletteria i nostri mercati di riferimento sono Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti e Russia/Ucraina. Improvvisamente (e dopo le problematiche che i primi due avevano già attraversato) è venuto a mancare il quarto di questo elenco, per cui si può ben immaginare quali e quanti problemi si siano riversati sui produttori del settore nell’ultimo mese”, spiega a FashionNetwork.com il presidente di Mipel e Assopellettieri, che prima analizza a grandi linee la situazione del comparto e poi propone alcune idee e soluzioni per rilanciare le eccellenze della pelletteria e degli accessori Made in Italy.

“La pelletteria italiana ha numeri buoni, per certi versi addirittura molto buoni, ma quelli che stanno andando davvero bene sono i brand”, entra nel merito l’imprenditore toscano. “Molti degli espositori presenti in fiera – che fino a 4 settimane fa erano contentissimi, seppur già provati per la pandemia – sono andati in difficoltà per colpa di questa guerra, la quale ha causato notevoli impatti sui giri d’affari di società che, tra l’altro, non possono vendere una borsa tutta fatta in Italia a meno di 300-350 euro al pubblico. Secondo me, ma non sono certo l’unico a pensarlo, o le aziende che non riescono a diventare brand si convertono ed iniziano a produrre per i brand, oppure sono destinate a scomparire”.
Tuttavia, non si tratta di un’operazione semplice, secondo Gabbrielli, in quanto “occorre che le PMI italiane cambino completamente mentalità”. Spesso, infatti, si tratta di aziende familiari, che non vogliono entrare a far parte di gruppi. “In parte c’è un comprensibile orgoglio personale di non voler veder scomparire il proprio marchio, coltivato per anni, e in parte ci sono motivi di struttura interna, in quanto l’azienda a marchio proprio deve osservare una serie di competenze organizzative, commerciali, di rete vendita, logistiche, di comunicazione e marketing che richiedono ingenti investimenti di denaro per essere sviluppate. Invece, l’azienda artigiana, pur bravissima nell’unico lavoro che ha sempre saputo fare, quello della produzione, non riuscendo a diventare brand, sovente si ritrova costretta a convertirsi a una produzione per conto di terzi”.
Gabbrielli riscontra un’esplosione di consensi e contatti per la fiera fisico-digitale Mipel Lab che è stata proposta da Assopellettieri all’ultima sessione del salone Lineapelle di febbraio e che è proprio rivolta alla sola produzione, “grazie alla quale notiamo che quasi tutti i brand del lusso, anche molti francesi, vengono a produrre in Italia sfruttando le nostre eccellenze artigianali locali”, precisa. “Resto però un po’ più preoccupato per chi è presente al Mipel senza essere ancora riuscito a fare il salto verso il diventare brand a tutto tondo”.
È anche per questo che la fier amilanese da questa edizione numero 121 ha stretto una collaborazione con Mirta Wholesale, il portale B2B nato per connettere le piccole realtà artigiane del lusso con boutique internazionali, diventato a tutti gli effetti la piattaforma digitale di riferimento della manifestazione.
Gabrielli ha voluto fortemente collaborare con Mirta perché crede nel loro progetto. “Se Mirta riuscisse a crescere, potrebbe aprire nel prossimo futuro dei monomarca con all’interno i marchi dell’alto artigianato italiano. Ho già proposto loro di aprire in Stazione Centrale a Milano un pop-up Mipel/Mirta per la prossima edizione della fiera. La loro è una visione moderna dell’artigianato”, afferma. “Per esempio, mi hanno raccontato che una borsa è rimasta nel loro catalogo per un anno e non ne hanno venduta una, poi hanno deciso di renderla protagonista di una campagna con un’influencer giapponese e ha avuto un boom di vendite. Un altro piccolo esempio di cosa sia necessario nel mondo d’oggi”.

Franco Gabbrielli riassume infine quelle che secondo lui dovranno essere le linee guida da seguire per far crescere il comparto italiano della pelletteria e degli accessori moda. “Il primo punto è incrementare la digitalizzazione, non solo con fiere phygital, ma cercando di aderire a progetti di e-shop e marketplace B2B collettivi – wholesale o retail – con altre aziende del Fatto in Italia”, sostiene. “Poi strutturarsi perché le aziende italiane propongano una maggiore personalizzazione ed esclusività dei prodotti, che le porti a distinguersi sul mercato. Inoltre, realizzare a livello di comunicazione e marketing una campagna per far sì che gli italiani ricomincino a comprare prodotti nostrani, un po’ come accaduto nel turismo. Punto che però comporterebbe anche il riapparire di un cliente evoluto, che come avveniva 50 anni fa ricominci ad acquistare cappotti, scarpe e accessori di grande qualità, invece di andare a comprarli dalle catene di fast fashion…”.
Infine, “queste aziende si devono aggregare. Non esiste che stiano da sole nel mercato odierno. Il ‘piccolo è bello’ non ha più ragione d’essere, il ‘piccolo uniti’ sì”, tuona. Esempio da seguire, gli chiediamo? “Il gruppo Florence”, risponde Gabbrielli, “che con alle spalle un fondo che garantisce solidità finanziaria a tutti i livelli, ha lasciato alle famiglie fondatrici una quota di ogni azienda produttiva dell’indotto che ha acquistato, consentendo loro di continuare l’attività con sinergie solide e un continuo scambio di competenze. Chi ha il know-how migliore lo dà a tutte le altre. Oggi il gruppo consta di 12 realtà che insieme fatturano 330 milioni di euro. Ma si tratta di aziende esclusivamente di produzione. Bisognerebbe pensare a un’aggregazione del genere anche nel mondo dei piccoli brand italiani”.
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