Moda

La corsa alla sostenibilità passa per trasparenza e certificazioni


Investire in sostenibilità non è più un tabù per le Pmi italiane della moda, che stanno passando dalle azioni incerte della prim’ora – la capsule collection in cotone organico o il capo fatto con materiale riciclato – a un’analisi più completa delle performance ambientali e sociali, in vista di progetti che investono l’organizzazione aziendale. Anche perché, come si è visto al Pitti Uomo che si chiude oggi a Firenze, chi è partito per primo, seguendo un percorso chiaro e coerente, sta già raccogliendo i frutti degli investimenti in sostenibilità.

Il marchio Save the Duck ha messo in bella evidenza, all’ingresso dello stand del Pitti, la certificazione BCorporation (una delle più qualificate per misurare le performance ambientali e sociali) che possiede dal 2019, con l’indicazione «we are the first B-Corp of the italian fashion system» (siamo la prima B-Corp del sistema moda italiano). Quest’anno l’azienda (64 milioni di fatturato previsto nel 2022, +36% sull’anno precedente, con un ebitda del 20%) affronterà, dopo la scadenza del primo triennio, la nuova analisi per confermare la certificazione, con l’intento di migliorare ancora.

«Abbiamo tracciato totalmente la filiera, dal pet riciclato con cui produciamo il 55% della collezione primavera-estate 2023 al capo finale – spiega il fondatore e ceo Nicolas Bargi, che ha appena pubblicato il quarto report di sostenibilità – e nel 2021 abbiamo compensato totalmente le emissioni di carbonio fissando l’obiettivo net zero (annullare le emissioni dalla catena di fornitura agli utenti finali, ndr) entro il 2030”. Il fatto di produrre gran parte della collezione in Cina non è un ostacolo: «Bisogna togliersi dalla mente dove si produce – dice Bargi – e pensare a come si produce. E comunque è più facile convincere una fabbrica cinese a cambiare rotta, che una italiana».

La rotta l’ha cambiata la spagnola Ecoalf, BCorporation dal 2018 come campeggia, anche in questo caso, all’ingresso dello stand del Pitti: «Tutti i capi in cotone della prossima collezione estiva provengono da fibre riciclate e riciclabili – spiegano – grazie alla collaborazione con un’azienda del Marocco. A settembre lanceremo una collezione sport fatta con un tessuto che non rilascia microfilamenti, uno dei grandi problemi dell’abbigliamento sportswear. In Italia stiamo crescendo e a fine ottobre apriremo il primo negozio a Milano».

Sulla sostenibilità investe da tempo Paul & Shark, il marchio di Andrea Dini che al Pitti Uomo presenta giubbotti fatti con le vele dismesse che saranno messi all’asta per beneficenza. «Il 99% dei tessuti utilizzati nella prossima collezione estiva proviene da fibre riciclate – spiega Dini – e all’interno dell’azienda esiste un team dedicato alla sostenibilità che oggi è formato da tre persone. Oltre alla provenienza dei tessuti, sono convinto che dobbiamo guardare al modo di produzione: ad esempio il risparmio di acqua, che è una risorsa limitata, è fondamentale e può portare a scegliere, proprio in nome della sostenibilità, un cotone non organico anziché organico, che richiede più lavaggi». Anche Paul & Shark sta prendendo in considerazione la certificazione B-Corp, obiettivo che punta a ottenere entro il 2023 il gruppo veneto Slowear (marchi Incotex, Zanone, Glanshirt e Montedoro), già diventato società benefit. Sta valutando le strade da intraprendere la bolognese Wp Lavori in Corso, contenitore di otto marchi tra cui Barbour, Baracuta, Filson, che compie 40 e li festeggia con una mostra d’archivio nello stand di Pitti: «Abbiamo deciso di installare pannelli solari sul tetto del nostro stabilimento di mille metri quadrati – spiega la presidente Cristina Calori – e cerchiamo di recuperare i capi vintage per dar loro nuova vita e di utilizzare tessuti riciclati. Stiamo scegliendo un consulente ambientale per accompagnarci nel percorso di sostenibilità”.

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