Utopia e distopia sono le idee guida della moda che si vede in questi giorni a Milano. Che sia verso il migliore dei mondi possibili o verso l’incubo avverato, della stessa cosa si tratta: fuga dalla realtà. Comprensibile, e pure condivisibile (nelle foto in alto, da sinistra, Moschino, Tod’s e Prada).
Passaggio di testimone da Etro
Per Kean Etro, che firma per l’ultima volta la collezione maschile del marchio – il timone passa adesso nelle mani di Marco De Vincenzo – utopia è celebrare l’otium produttivo della poesia invece che il negotium industrioso ma sovente insensato di questi tempi mercantili che non di rado girano a vuoto. Con un lirismo per nulla estenuato, al contrario erotico e sensuale, e per questo pagano e presente, celebra una nuova, aerea semplicità: abiti immediati, molti dei quali impalpabili e trasparenti, percorsi da motivi floreali d’ascendenza giapponista. Via i dandismi, le eccentricità e le trovate, si strippa tutto al minimo per massimizzare l’effetto, ovvero glorificare il corpo nella sua tonica, umida carnalità. A fine sfilata, Kean esce in passerella sulle note di Road to nowhere dei Talking Heads e mentre percorre la strada – utopica – verso il nulla che è il futuro, prende per mano la sorella Veronica e si è sicuri che i due lasciano, di sè, un bel ricordo.
I grandi nomi: Versace e Prada
L’utopia versaciana è da sempre estrema, eroica, muscolare, tra Magna Grecia e Miami. Donatella Versace torna a sfilare con l’uomo dopo alcune stagioni di silenzio, e sceglie la storica magione di via Gesù, occupando il giardino con specchi verdi e busti finto-antichi francamente alquanto casalinghi. I soffi d’antichità abbondano, non ultimo sui riccioli scolpiti e glitterati, e alcuni modelli reggono in mano vasi che paiono urne cinerarie, ma per il resto del potere mascolino cui Donatella ci ha abituato c’è ben poco. Il disegno, chiaro, è di orientarsi verso una immagine meno idealizzata, più concreta e possibile, ma al momento manca il nerbo. Il nerbo non manca a Miuccia Prada, da sempre testardamente e orgogliosamente controcorrente (nella foto, Jeff Goldblum, ospite della sfilata). L’atteggiamento di sfida – composto e deciso, quindi doppiamente sedizioso – permane anche adesso che il timone creativo è condiviso con Raf Simons. Cosí mentre gli altri utopizzano e fuggono, la signora e Simons si ancorano al reale, qualunque esso sia nel contesto della moda, e lavorano su vestiti da indossare, su una idea di apparente normalità, che, per innata tendenza alla soverchia idealizzazione, ascrivono ad un processo di scelta continua. La collezione si intitola Prada Choices, infatti. Progettare, certo, è scegliere, almeno quanto lo è vestirsi, giorno dopo giorno. La scelta, adesso è di focalizzarsi sugli archetipi, sui pezzi singoli, dal giubbotto tipo Baracuta all’impermeabile, dai jeans allo smock, usando come cornice una doppia base: l’abito sartoriale nero, di certo caro alla Signora, e gli shorts di pelle, neri anch’essi, più vicini alla sensibilità di Simons. Il risultato è una collezione di magnifico prodotto sbattuto in faccia come i gioielli esposti sulle basi di velluto nelle vetrine dei negozi: un esercizio di riduzione e concretezza perfettamente eseguito ma freddo come un esperimento condotto in vitro. Permane, pericolosa ma rassicurante, la tendenza all’auto citazione, mentre l’infantilismo di sempre non accenna a sparire e allora la concretezza sfuma nell’utopia dell’eterna giovinezza.
Prodotto al centro per Tod’s
Anche Walter Chiapponi, da Tod’s, pone tutta l’attenzione sul prodotto, che è morbido nell’aspetto e nell’uso, per veicolare una idea di libertà e vita en plein air. Altrove, si continua invece ad evadere: verso scenari di pace interiore e stordimento ibizenco da County of Milan, in una fantasia di eroismo pop alla Tony Viramontes da Moschino, in una distopia autodistruttiva e abrasiva da Jordanluca, nel clubbing industriale da 44 Label Group, nella malinconia lieve corrosa dalla salsedine di Federico Cina, talento calmo e defilato, nel caos sbrindellato ma gentile di Simon Cracker, interessante progetto di upcycling concepito da Simone Botte e Filippo Biraghi. Qui, tutto è realizzato con capi di recupero, scartati, dimenticati in lavanderia, negletti, che vengono fatti a fette e remixati. Il debito verso il lavoro seminale di Christopher Nemeth e Judy Blame presso The House of Beauty and Culture è evidente, ma l’estetica tra punk e Holly Hobbie è intensamente personale. Altrimenti, è moda interrogativa, nonsense deliberato, provocazione dell’object trouvè. Benvenuto ospite nel calendario milanese, JW Anderson crea un clash tra forme elementari e oggetti disparati: un manubrio di bicicletta, la cerniera della porta, i guanti industriali e le chiusure delle lattine si integrano a felpe e t-shirt, senza apparente ragione. Poi, certo, si vende altro, ma l’effetto sorpresa è vivificante.