Spazi bianchi, monumentali e pieni di possibilità: giunta alla quinta giornata, la tornata di sfilate parigine rilascia finalmente le dichiarazioni stilistiche di peso e di spessore, ma lo fa senza trucchi e inganni scenici. Parlano i vestiti, e solo quelli, presentati dentro scatole neutre. Da Loewe, Jonathan Anderson riflette con verve immaginifica sul rapporto tra naturale e digitale, ma anche tra reale e virtuale, e trova una soluzione tangibile e presente. «Sono tutti alla ricerca di come fare qualcosa nel metaverso – dice –, ma sarebbe forse più interessante lavorare su come creare una diversa materialità». A Parigi Anderson porta in passerella le creazioni della maison del gruppo Lvmh, ma è passato anche da Milano, dove ha sfilato il marchio che porta il suo nome.
La collezione per Loewe definisce una nuova realtà, nella quale il naturale e l’artificiale si completano e compenetrano. Il messaggio è affidato ad una serie di pezzi inauditi che sono probabilmente, al momento, solo idee, suggestioni, stimoli passibili di ulteriori sviluppi. Su un gruppo di indumenti – cappotti, felpe e pantaloni, cosi come sulle sneaker (foto in alto) – crescono lunghi fili d’erba – vera – che sono il frutto di un processo sperimentale sviluppato con Paula Ulargui Escalona; su altri si moltiplicano schermi digitali che riproducono stock images di paesaggi e situazioni naturali, incluso un bacio appassionato. Tutto ciò a cornice di una collezione di archetipi standardizzati e poi gonfiati, o striminziti, dal bomber ai pantaloni da running. Il look ricorda molto i tech guys che, nella Silicon Valley, hanno fatto e fanno le rivoluzioni che ci travolgono tutti stravolgendo il modo globale di vivere, vedere e pensare. Rivoluzioni che iniziano, però, come visioni quasi psichedeliche. La collezione ha proprio questo effetto, di espansione della mente; integra concetto e prodotto con lo stesso spirito sincretico con cui si integrano naturale e artificiale. Il risultato è puro progresso.
Anche Craig Green presenta in uno spazio bianco, e lo spirito è ugualmente progressivo, di una psichedelia lucida, tagliente, costruttiva. Il viaggio, mentale e materiale, parte dal bianco per terminare in una esplosione di colori, e dal mondo dell’infanzia per arrivare all’età adulta e infine tornare indietro. Le radici del lavoro di Green, che è un visionario dallo spirito pragmatico, affondano nel workwear e questo rende le sue elucubrazioni, anche le più difficili da seguire, concrete e tangibili. A questo giro il detour tra archetipi e iconografie include mondo equestre, avventura, sculture fluttuanti, stampe gigantizzate e persino l’abito formale con la cravatta, ed è particolarmente complesso, ma quel che ne viene fuori è un magnifico puzzle di tessere che non combaciano, e che in questo glitch liberano il potenziale innovativo.
La logica del collage incontra una spiccata sensibilità cromatica da Kolor, il bel progetto di Junichi Abe, che torna a sfilare dopo alcune stagioni di silenzio. La prova è tesa, energetica, personale.
Da Hermès, Veronique Nichanian ha preso ormai da alcune stagioni a rinfrescare e ringiovanire l’enunciato, evitando però forzature giovanilistiche. Questa stagione abbondano gli shorts, da mane a sera, come i colori, su forme leggere e volumi aerei. Per il resto è l’usuale e benvenuta nonchalance, con la sapienza di fattura e il lusso di materia di cui solo Hermés è capace.
Il rodeo di Casablanca, completo di cavalli veri che poco o nulla aggiungono alla narrazione, ha un che di costumistico e kitsch, mentre le olimpiadi multiculturali di Marine Serre sono il miscuglio di activewear, look da sciuretta, denim e citazioni anni Novanta – Versace, in questo caso – cui il marchio ci ha abituato da tempo. Il prodotto abbonda, ma lo slancio, al momento, è fiaccato, sicché il risultato è poco personale.