Moda

Thom Browne torna a sfilare con la consueta, energizzante, ironia


La settimana parigina della moda che si è chiusa domenica ha alternato sorprese – poche – a sbadigli – non pochi. Il merchandising, da ultimo, ha surclassato il design, sicché sovente le sfilate, invece che racconti in forma di abiti sembrano campionari snocciolati in passerella senza troppo pensare. È cosí certamente da Kenzo, dove la seconda prova del nuovo direttore creativo, Nigo, poco si scosta dal debutto e manca completamente di energia e coesione. A parte l’ormai trita coesistenza di est e ovest, di Giappone e Parigi, tratto definente fin dalla fondazione, è difficile trovare una linea di pensiero. Dai regimental ubriachi ai dettagli marina, passando per le scarpe post-punk, non mancano i pezzi desiderabili, ma sono cose, roba senza aura, assemblata con scarsa verve. Il problema è lo stesso che si è riscontrato altrove di recente: manca un progetto di brand, perché la nomina di un direttore creativo dalla risonanza cool non è abbastanza nel panorama di oggi, soprattutto per un marchio che in passato ha avuto una identità cosí definita e giocosa.

Da Namacheko, Dilan Lurr opta per la tabula rasa, e resetta completamente l’identità del pur giovane progetto, spostandosi da territori di afasica secchezza ad una ricchezza di strati che omaggia, in modo astratto e rarefatto, le proprie origini curde e irachene. Il cambio di rotta è una sterzata felice e un momento di benvenuta sorpresa.

Sorprende pure Doublet, più per la vena umoristica della presentazione tranche de vie che per il disegno degli abiti, mentre Kiko Kostadinov conferma un approccio progettuale astratto e a tratti freddo, ma affascinante. Parte dalle uniformi, intese come abiti da combattimento, e dalla loro solo parziale perdita di significato nel contesto civile, e da lí affetta, taglia e remixa, creando una iconografia composita e intrigante.

Dopo la lunga assenza causa Covid, Thom Browne torna nella Ville Lumière, energizzato come non mai (foto in alto). Lo show è una parodia delle sfilate couture – numeri in mano, clienti trafelate, tweed perbenista e bon ton color pastello – condotta alla Thom Browne maniera, ovvero con humor secco e gusto dell’assurdo. Come si è visto altrove questa settimana, centro dell’attenzione è il corpo maschile, snudato e rivelato con sprezzo di pudori ormai giurassici. Si scoprono le gambe, ma anche il fondoschiena, che occhieggia dai pantaloni a vita bassa, incorniciato dal sospensorio. È proprio questo accessorio, trait d’union tra il mondo dello sport e l’underwear feticistico, a reggere l’intera prova e a darle un carattere maschile nonostante l’intero guardaroba lambisca territori femminili. Il gioco dei contrasti convince e soprattutto diverte, e fa passare il messaggio con un sorriso e una risata. Manca l’erotismo vero, ma una certa freddezza, qui, è parte dell’idioma.

L’idioma di Hedi Slimane è secco, angoloso, ripetitivo e androgino, ed è lo stesso qualunque marchio tocchi. Lo si ama o lo si odia, ma di certo è coeso e coerente. Nella incarnazione di stagione, da Celine, accelera su androginia e luccichii. Il plotone di replicanti, a questo giro, è scheletrico come da copione, con la frangetta e il caschetto, con le gonne, gli hot pants e i tacchetti, e poi ancora con le frange danzanti, le paillettes, i cristalli e tutto l’armamentario da clubbing new wave. Per le generazioni che seguono Slimane, questa fantasia primi anni ottanta non è nemmeno nostalgica, tanto che è remota. Sa di nuovo, è fluida, ha ritmo, suggerisce un gran divertimento e schiva allegramente tutta la retorica un po’ ipocrita che per ora impazza. Fare moda cosí è anacronistico o progressivo? L’interrogativo rimane aperto.

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