Ieri sera, con secchezza ed encomiabile riserbo, Raf Simons ha annunciato sul feed Instagram del marchio che porta il suo nome che la stagione s/s 23 sarà la sua ultima, di fatto mettendo fine ad un percorso in crescente ascesa iniziato in nordica sordina nel 1995. Nella nicchia, fu subitaneo successo; l’influenza sul sistema è stata pervasiva.
Si concludono così 27 anni di torsioni subculturali, di omaggi all’underground musicale e artistico sintetizzati in pezzi e silhouette potenti, altamente risonanti, che hanno creato un vero e proprio culto. Dal tailoring smilzo ai volumi giganteschi, dalle stratificazioni da guerriglia alla decostruzione dell’immaginario da banchiere, fino ad una intera collezione firmata a quattro mani con l’artista Sterling Ruby, Simons ha scritto un capitolo fondamentale della moda maschile, nel quale la nostalgia per l’adolescenza, momento volatile, androgino e sospeso di infinite libertà e possibilità, si è materializzata in un turbinio cangiante di situazioni vestimentarie, sartoriali, psicologiche.
Per quanto protratta, però, l’adolescenza non può durare per sempre: l’età adulta chiama, inesorabile. Simons è ormai un distinto signore nerovestito che divide il posto di comando creativo di un marchio globale, Prada, insieme alla distinta signora che lo ha ereditato e fin qui guidato. La chiusura del marchio Raf Simons getterà fan e adepti nello sconforto, ma è segno, da parte del suo autore, di consapevolezza e acume, non ultimo artistico: i pezzi in giro, nei guardaroba personali e sul mercato secondario, sono da oggi ufficialmente oggetti da collezione. Meglio chiudere all’apice, come ha fatto Helmut Lang, che trascinarsi per anni perdendo mordente, perché alla fine dei conti si è moderni una volta sola, e l’importante è saper finire. Il bam! telegrafico di Raf Simons è un finale perfetto: inatteso e tempestivo, come nei film horror che spesso ha citato.